Sabato 06 marzo, dalle 19:45
Evento di Ex Mercato Torrespaccata e Marco Abbondanzieri
«Sola me ne vo per la città» così recitava Nella Colombo nel 1945 a fine guerra. Era l’inizio di una stagione nuova, non soltanto per l’Italia provata da vent’anni di regime fascista prima e dalla seconda guerra mondiale poi, ma anche per la neonata canzone italiana che poteva esprimersi fuori dalle logiche della cultura imperante fino ad allora. «Sola me ne vo», ricordata anche come «In cerca di te», è di due autori già molto attivi prima del dopoguerra: Testoni e Sciorilli. La canzone risente dell’aria nuova che si respirava grazie alla liberazione e alla fine del conflitto, ed è vagamente ispirata alla musica d’oltre oceano, quella «musica degenerata» fortemente osteggiata dal fascismo e dal provincialismo italiano.
Così diceva Carlo Ravasio in un editoriale sul Popolo d’Italia del 30 marzo 1928.
«È nefando e ingiurioso per la tradizione e per la stirpe italica riporre in soffitta violini e mandolini per dare fiato a sassofoni e percuotere timpani secondo barbare melodie che vivono soltanto per le effemeridi della moda. È stupido, ridicolo e antifascista andare in sollucchero per le danze ombelicali di una mulatta o accorrere come babbei ad ogni americanata che ci venga da oltreoceano».
Comunque in barba alle dichiarazioni e agli intenti dei vari portavoce del regime, in Italia si comincia a diffondere quella pratica chiamata canzone della fronda, un genere che irrideva al regime con non tanto velata ironia, canzoni come «Bombolo» o «Maramao perché sei morto» e la famosa «Crapa pelata» di G. Kramer si riferivano a personaggi politici e ai loro vizi e difetti. Dopo la breve stagione dello swing, musica tipicamente d’importazione statunitense, il Festival di Sanremo con la sua prima edizione del 1951, esattamente 70 anni fa, consacra quella che poi diventerà la tradizione della manifestazione stessa, un evento molto conforme al monocolore politico di quegli anni, dove l’imperativo era ricostruire e fondamentalmente dimenticare le tragedie della guerra, insieme alle responsabilità di chi quella guerra l’aveva voluta e cercata. «Grazie dei fiori» cantata da Nilla Pizzi, di Mario Panzeri e di Gian Carlo Testoni vince la prima edizione condotta da Nunzio Filogamo e disputata all’interno del Salone delle Feste del Casinò di Sanremo, trasmessa via radio.
L’anno dopo nel 1952 vince sempre Nilla Pizzi con una canzone che fa il verso alle nostalgie irredentiste, il San Giusto citato nel testo è il santo patrono di Trieste, e l’amore diviso è quello di due amanti separati dai confini italo sloveni. Per la cronaca Trieste ritornò italiana nel 1954.
Nel corso degli anni la manifestazione sanremese divenne sempre più popolare, già nel 1954 la Neonata TV italiana iniziò a trasmettere, anche se non integralmente, le varie fasi della competizione canora, diventando man mano quel fenomeno sociologico che è ancora oggi oggetto di “chiacchiere” e studio. La banalità del circo sanremese, che negli anni ha visto avvicendarsi personaggi più o meno famosi, più o meno proponibili e tantomeno preparati, è ancora la caratteristica che muove la giostra. Fino ad arrivare al paradosso dell’anno del Covid dopo che teatri, cinema e altri luoghi di aggregazione restano chiusi con tutte le conseguenze che ne derivano per lavoratori e pubblico, personaggi che viaggiano a cifre da capogiro come compenso, si permettono il lusso di pretendere il pubblico in sala paventando abbandoni di cui nessuno rimarrebbe addolorato, tutto mentre il paese si scontra con la gestione di un’epidemia che ha trasformato la vita quotidiana delle persone minacciandone il benessere fisico, mentale ed economico. Un caso eclatante ogni anno, mossa questa ormai consueta che serve solo per alimentare interesse verso una performance vecchia ma ancora troppo importante per esser annullata o solamente mutata.
Però la storia di Sanremo non è fatta solo di critiche, formalità ed evasione, è anche il volto anomalo e imprevedibile del nostro paese e, soprattutto, è stato il trampolino di lancio di tanti artisti che, anche se perdenti al festival, sono entrati a far parte dell’olimpo della canzone italiana e internazionale, il più emblematico è Vasco Rossi, arrivato ultimo alla sua prima esperienza festivaliera. Non mancano altri esempi come quello di Lucio Dalla. All’esordio del 1966 fu completamente ignorato, mentre qualche anno dopo con «4 marzo 1943» scritta con Paola Pallottino, raggiunse la vetta del successo. La canzone è fintamente autobiografica: Lucio era di Bologna e a Bologna non c’è mare. Quel motivetto suonato come uno stornello e che rifà il verso a brani più esplicitamente dedicati alla maternità, piacque a tanti, forse a tutti. Capace di trasmettere, nonostante l’Italia stesse soffrendo una delle peggiori crisi politiche ed economiche dalla fine del conflitto, speranza, coraggio e conforto attraverso la storia di una maternità involontaria di una novella coraggiosa “Maria” abitante del porto che, “con l’unico vestito ogni giorno più corto” mette al mondo il suo Gesù bambino. Lucio Dalla è uno degli esempi di maturazione artistica post successo sanremese, infatti dopo l’esperienza al festival, per anni si rifugia nella canzone impegnata prima, musicando i versi del poeta Roberto Roversi, poi diventando cantautore a tutto tondo dal 1977, per divenire successivamente quel fenomeno di massa che tutti rimpiangiamo un pochino. Da ricordare che eminenti esponenti del panorama musicale italiano non abbiano mai mosso i passi sul
palco dell’Ariston, solo per citarne alcuni: De Andrè, De Gregori, Guccini.
La canzone d’autore viene sdoganata a Sanremo nel 1968 con la vittoria di Sergio Endrico e Roberto Carlos con il brano «Canzone per te» l’anno successivo alla tragica morte di Luigi Tenco.
Altro punto di svolta importante sia per la canzone d’autore in sé, sia per l’industria discografica che parallelamente poteva proporre prodotti di semplice evasione, che la nascente canzone impegnata. Una dicotomia questa che, insieme ad altri fenomeni extra festival come l’Italian Prog la musica sperimentale, il Beat in fasi alterne e la ritrovata vena popolare e Folk dei primi anni ’70, ha permesso il progresso del mercato della musica nostrana altrimenti in crisi, con l’avvento e l’esplosione del 33 giri. A metà degli anni ’70 il festival conosce forse il punto più basso sia di ascolti che di qualità. Nel 1974 l’edizione viene trasmessa in differita e soltanto la serata finale in diretta a dimostrazione del calo d’interesse da parte del pubblico che in precedenza aveva affollato i luoghi del festival, e che ora si riduce a poche decine di persone.
Dai fasti di Domenico Modugno, considerato il proto cantautore del dopoguerra, che nel 1958 a Sanremo con le braccia allargate inneggia a volare nel blu dipinto di blu, tutto prima che la lungimiranza di Nanni Ricordi & friend compiano il miracolo della scuola genovese, passando per
il fenomeno chiamato “Effetto Tenco” che fa mutare la canzone impegnata rendendola visibile ai più, tanto che Amilcare Rambaldi, l’ideatore del festival crea un contro festival intitolato proprio al cantautore morto. Tra tutte queste vicissitudini arriviamo ad oggi con il mediatico evento Festival di Sanremo che, oltre della canzone, si nutre di “chiacchiere”, “polemiche”, “finte querelle” pur di mantenere alta l’attenzione. Un gioco ormai consolidato e ben strutturato dai media, che resta, con i suoi 70 anni, specchio di un paese che fa fatica a maturare e a scrollarsi di dosso il suo atavico conformismo.
Scriveva Luigi Tenco nel suo ultimo messaggio prima di andarsene:
«Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita.
Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno, ciao Luigi».
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